L’articolo - in forma più approfondita - è stato pubblicato per la
prima volta su Academia.edu (1) nel 2021 e viene pubblicato in versione ridotta
anche su Opificio della Musica, con la volontà di offrire al lettore un
ritratto intimo del compianto pianista Giorgio Gaslini.
(Giorgio Gaslini – Credits: CdT.Ch)
Introduzione:
Il saggio vuole raccontare l’incontro tra l’autore e il compianto M° Giorgio Gaslini, icona del jazz mondiale, avvenuto durante il
concerto “Jazz in Blues” organizzato
dal Comitato Giù le Mani dai Bambini Onlus in occasione della Giornata Mondiale dell’Infanzia delle
Nazioni Unite 2009 presso l’Auditorium
RAI “Arturo Toscanini” di Torino. L’autore condivide un ritratto intimo di
Gaslini, avvenuto in un momento di pausa prima dell’esibizione. Un omaggio
all’uomo, nella speranza di poter dare del maestro una visione meno nota e che
esca dai confini del personaggio pubblico e delle pubblicazioni ufficiali.
L’incontro:
Spesso si dice che la musica sia
un linguaggio universale. Ma io l’ho visto. Lo posso testimoniare. Dopo
l’arrivo in auditorium del M° Giorgio
Gaslini e di Emma Re, due
persone che non si erano mai viste prima hanno dialogato. Non come fanno quelli
che non hanno il dono di conoscere la musica al tavolino di un bar, dove prima
devono conoscersi e trovare qualcosa in comune di cui disquisire.
Emma Re e Gaslini si sono
incontrati per la prima volta sul palco. Si sono stretti la mano e hanno
scambiato qualche parola di circostanza, attorniati da collaboratori, volontari
e i musicisti di Emma.
Gaslini con un impeccabile
doppiopetto grigio e una cravatta dai toni accesi sul rosa. Emma re con un
bellissimo giubbotto di pelle nera sul quale il suo caschetto biondo si
stagliava magnificamente quando appoggiava i gomiti sul pianoforte.
Poche parole, qualche sorriso e
infine un titolo. Emma prende posto accanto al meraviglioso Steinway
& Sons a coda nero e Gaslini si siede davanti alla tastiera. Il
mondo sul quale le sue dita fanno tutto quello che possono fare per crearne
altri.
La musica inizia, e anche se
nessuno riesce a muoversi da quel palco scompaiono tutti e rimangono i due
sconosciuti che iniziano a dialogare. Come se si conoscessero da tempo. Non da
sempre, ma abbastanza da poter creare qualcosa che prende vita, che si erge in
quel tempio della musica e si fonde. È il suono che prende i suoi spazi
togliendone al brusio che scompare. Una voce meravigliosa si affianca e infine
si fonde a quella che per essere udita passa attraverso uno strumento che pur
enorme appare leggero.
Dal fondo della sala, in
solitudine, guardavo questo spettacolo, come si guarda un quadro, nella
speranza che il tempo si fermi e ti lasci apprezzare la bellezza di ogni
singolo istante.
L’inizio dello spettacolo era
previsto per le 20:45 e c’erano molte cose da fare. Compreso andare a
recuperare una batteria per un membro della band di Emma.
Come un fantasma ho lasciato
l’auditorium, cercando di non interrompere quel momento così intenso.
Al mio rientro, un’ora e mezza
dopo, sul palco il pianoforte a coda sembrava una portaerei pronta a salpare.
Dal soffitto, decine di microfoni appesi a cavature d’acciaio erano pronti a
catturare ogni nota. C’era una strana calma che non avevo notato fino a quel
momento in quel luogo.
Cercando di rendere la mia
presenza molto discreta, mi sono riportato verso il backstage, per controllare lo stato di avanzamento
dell’organizzazione e valutare le necessità degli artisti. Il camerino della
band di Emma era aperto e i musicisti chiacchieravano tra loro. Sono rimasto
qualche secondo a guardarli in attesa di qualche eventuale richiesta. Tutto
sotto controllo.
Il camerino di Emma era chiuso.
Decisi di non bussare, tanto sarei rimasto in zona nel caso ci fosse stata
necessità.
Il camerino di Giorgio Gaslini
era aperto. Le pareti di un giallo paglierino facevano contrasto con la giacca
di scena del Maestro che era appesa su una stampella, a sua volta ancorata ad
un attaccapanni da muro. Una giacca in
velluto verde scuro, che avrei scoperto dopo, creava effetti straordinari
quando veniva colpita dalla luce dei riflettori. Anche questo è mestiere…
Giorgio Gaslini era seduto con
eleganza su una sedia del camerino, a pochi centimetri dal tavolo su cui aveva
appoggiato un cameo che avrebbe usato, al posto della cravatta, per chiudere il
colletto dell’impeccabile camicia bianca che era ben distesa su un’altra
stampella.
Rimasi sulla porta, con un
sorriso imbarazzato, di fronte ad un gigante della musica, con l’obiettivo di rendere il dono della sua presenza in
quel luogo il più confortevole possibile.
Mi fece cenno di entrare e io
avanzai di qualche passo rimanendo in attesa di indicazioni.
«Non ricordo il tuo nome, mi devi perdonare», mi disse con
un’eleganza e un’autorevolezza che mi intimidì.
Non ebbi il tempo di rispondere. Mi guardò negli occhi attraverso i suoi
occhiali dalla montatura minimalista e mi disse:«Facciamo due chiacchere. Ti piace la musica?»
«Ecco… sono fregato!» Dissi tra
me e me, rispolverando le sensazioni tipiche dell’allievo all’interrogazione
della materia più odiata. Giorgio Gaslini chiede a me se mi piace la musica.
Sia ben chiaro, a me la musica piace moltissimo e, nel mio piccolo, cerco di
comprenderla e indagarla; ma di fronte ad un titano, anche uno alto quasi due
metri si sente minuscolo. Fu così che risposi, dicendo che la musica mi piace
molto e che occupa un posto molto importante per me, anche se non ho avuto la
possibilità di studiarla.
«Che musica ascolti?» mi chiese.
«Sono cresciuto ascoltando musica rock. Bon Jovi, Def Leppard, Rolling
Stones…».
Immaginavo la delusione creata da
una risposta del genere data ad un jazzista, pur tenendo conto della differenza
culturale e di età tra i due soggetti coinvolti in quella discussione.
Obiettivamente non si può certamente dire che si possa paragonare la
raffinatezza di certe improvvisazioni jazz con le canzoni dei gruppi citati.
A quel punto sul suo volto serio
apparve un accenno di sorriso seguito da un «La musica è musica. È ritmo, melodia e armonia, e lì ce n’è molta».
Continuò con una frase che
ricordo ancora perfettamente: «La musica
conta molto, perché la musica contiene il colore – il timbro – con tutte le sue
sfumature. Contiene il fraseggio (quindi la melodia fraseggiata), contiene
l’armonia (ovvero più parti armoniche insieme) e contiene soprattutto il ritmo.
Tutta questa cosa musicale non ha vita se non c’è una struttura ritmica alla
base, che può essere tesa o sottintesa.
Il ritmo è la base della comunicazione».
Fu a questo punto che mi resi
conto che io e lui stavamo comunicando. Io che di comunicazione mi occupavo da
anni mi sono lasciato dire da un musicista che stavamo comunicando.
In quel momento i confini tra le
nostre aree di competenza erano crollati. Liquefatti.
Due sconosciuti stavano
comunicando parlando di musica. Perché la musica non è fatta solo di note,
battute e linguaggi specifici. Va oltre, trascende in virtù del fatto che fa
parte della natura umana e del suo senso comunitario e collettivo. E in quella
stanza esisteva una collettività formata da due persone pronte a incontrarsi e
ascoltarsi, e quindi c’era la musica.
Quasi come se riuscisse a
ascoltare questo mio pensiero continuò il suo discorso: «La musica può, attraverso la ritualità della melodia - armonia - ritmo,
coinvolgere quasi in una cosa tribale, è una cosa che facciamo fin da bambini».
Feci un cenno di assenso con la
testa mentre rielaboravo la profondità di quel concetto.
Guardai il Maestro negli occhi è
gli dissi quanto fosse importante per me aver sentito quelle parole proprio
alla vigilia di un evento dedicato ai bambini. Mi permisi di chiedergli se
aveva iniziato a suonare molto presto e perché proprio il jazz.
Lui mi rispose:«Ero molto piccolo e la musica era presente
in casa. Avevo un fratello di tre anni più grande che suonava il pianoforte. La
prima volta che toccai i tasti del pianoforte sentii quasi un effetto di
risonanza in me e capii che quello era il mio strumento. A dire il vero rompevo
un po’ le scatole a mio fratello, perché riconoscevo le note e qualche piccolo
errore che lui commetteva, facendolo notare. Andai da mio padre chiedendogli di
frequentare delle lezioni di pianoforte. Mio padre era un uomo di cultura
autorevole ma mai autoritario. Era anzi molto rispettoso e mi guardò
chiedendomi se fosse una cosa seria. Io risposi di sì. Partì tutto da lì. La
mia infanzia si divise tra studio e gioco. A 9 anni mi sono esibito per la
prima volta in pubblico.
Mio padre era un africanista, visse 10 anni in Africa. In casa avevamo
quadri, strumenti musicali e oggetti d’arte oltre, ovviamente, a supporti con
la musica africana. Io studiavo Beethoven e contemporaneamente provavo a fare
le improvvisazioni tipiche della musica africana.
Quando avevo 12 anni qualcuno venne da me e mi disse che “Quella roba
lì che facevo si chiama jazz!”. E io ho continuato a farla quella roba lì».
Fu un momento veramente intimo,
in cui un uomo di ottanta anni parlava con una persona della quale non sapeva
neppure il nome della sua infanzia. Della sua famiglia. Di quella cosa chiamata
musica che lo ha guidato per tutta la sua esistenza.
Purtroppo quel momento stava
giungendo al termine. Un mio collaboratore mi venne a chiamare per risolvere
uno di quei problemi dell’ultimo minuto tipico degli eventi. Mi alzai dalla
sedia sulla quale il Maestro mi fece cenno di sedermi qualche minuto prima e
con un’espressione del volto gli chiesi il permesso di congedarmi.
Lui sorrise, cosa che credo non
gli venisse troppo naturale, e mi chiese:«Ma
come ti chiami?»
«Emmanuele, con 2 “m”», risposi.
«Ah, nome biblico. Ora so con chi
ho parlato così a lungo di me».
All’unisono, come al suono di una
battuta che abbiamo sentito solo noi abbiamo fatto un cenno di saluto
abbassando il capo.
Ma io mi sentii in dovere di
salutarlo anche con la voce:«Grazie
Maestro».
Emmanuele Macaluso
(1) https://www.academia.edu/60565096/Incontro_con_Giorgio_Gaslini_Un_ricordo_personale_di_Emmanuele_Macaluso